Dopo l'alluvione, stop Cemento!


5 Maggio e 17 maggio 2023, Romagna: due o tre giornate di pioggia provocano oltre 1000 frane, 23 fiumi esondati, 17 morti, 44 i comuni colpiti. 5 miliardi di metri cubi di acqua hanno ricoperto 540 km quadrati di territorio, in ogni metro quadrato sono caduti in media 200 mm di acqua, l’acqua che normalmente cade in 6 mesi. Faenza è stata una delle città più colpite. I meteorologi dicono che è stato uno di quegli eventi estremi che dovrebbero avere cadenza 200 anni ma che, a causa del riscaldamento globale, aumenta la sua frequenza. Due alluvioni in un mese, in un territorio già duramente provato dalla siccità, dalla cementificazione e dallo sfruttamento agroindustriale.  Il fango seccandosi ha soffocato la terra sottostante compromettendo la sua fertilità.
Purtroppo, invece di capire la dura lezione della natura, che questo modello di sviluppo si sta scontrando con i limiti della natura, come testardi e viziati studenti, stiamo facendo tutto il contrario e ce la stiamo prendendo con la "natura maligna". Con i fiumi, da imprigionare, con gli animali selvatici da ammazzare, con gli alberi da abbattere.
Il Consiglio comunale di Faenza ha approvato una mozione a luglio 2023 per velocizzare la "pulizia" dei fiumi, che altro non è che il disboscamento totale. E così, nel pieno dell'estate, nel picco del caldo più torrido, il fiume senza ombra e senza alberi sta letteralmente cuocendo i pochi pesci rimasti.



Il Lamone, il Marzeno, il Senio e tutti gli altri fiumi, secondo le intenzioni punitive della Regione, saranno entro l'autunno letteralmente "pelati", “da monte a valle” cioè totale sfalcio e disboscamento degli alberi lungo gli argini. Ma se l’intenzione  è pulire tutti i fiumi finora esondati (circa 23 fiumi), peraltro in periodo pieno di nidificazione, si preannuncia una strage di alberi (e degli animali che ci vivono) senza pari, in una regione già pesantemente antropizzata e con la biodiversità ai minimi.  Altro che quattro milioni di alberi da piantare, come prometteva Bonaccini!
Da adesso a ottobre ne verranno tagliati altrettanti se non di più che diventeranno legna da ardere nelle centrali a biomassa che pullulano in queste zone e che godono degli incentivi (sono considerate “fonti di energia rinnovabile”). Ma almeno serve a ridurre il rischio idraulico?
Tagliare alberi in montagna e collina vuol dire aumentare la velocità dell’acqua, mettendo ancora più a rischio la pianura. In pianura bisogna valutare caso per caso.  Se proprio necessario è sempre meglio intervallare tratti alberati e tratti tagliati, sfalsati di sponda in sponda in modo da mantenere un corridoio ecologico, ma sono assolutamente da evitare tagli a raso su entrambe le sponde per km e km. Creare un deserto ecologico destabilizza l’ecosistema fluviale, aumenta l’inquinamento e la temperatura delle acque del fiume e riduce i predatori degli istrici, come i lupi, che sono i migliori  predatori di istrici che esistano.
Giuliano Trentini, presidente del Cirf da tempo sottolinea che serve una corretta gestione della vegetazione lungo i fiumi: “Piante sane, situate all’interno di formazioni compatte, raramente vengono scalzate o stroncate dall’acqua, al contrario di piante morte o isolate sul ciglio o piede di sponda. Occorre una gestione costante e capillare della vegetazione in cattivo stato di salute, effettuando tagli a carico degli esemplari secchi, malformati, l’installazione di idonee trappole per tronchi (ad esempio briglie filtranti a funi). Mettiamoci però in testa che impedire le alluvioni non è possibile, mettere in totale sicurezza non è possibile, si possono solo limitare i danni, e adattare il territorio. Basta che una piccola parte dell’infrastruttura vada in crisi, ad esempio che pochi metri di rilevato arginale cedano, per vanificare l’intero sistema di protezione. Per questo è illusione pensare che le opere strutturali “mettano in sicurezza” il territorio, ancora più pericoloso perché alimenta ulteriormente un uso del suolo imprudente e spregiudicato, inducendo a concentrare insediamenti e attività antropiche anche nelle valli fluviali. Il vero conflitto è tra uso del territorio (case e infrastrutture) e sicurezza.”
Anche dragare i fiumi e approfondire il loro letto viene considerato controproducente, perché minerebbe la stabilità dei ponti e degli argini. Insomma non si deve agire in verticale ma in orizzontale, dando più spazio ai fiumi.


Cementificazioni selvagge
Faenza è una delle città più colpite dalle alluvioni di maggio, e sorge nel punto di confluenza del fiume Lamone e del suo torrente Marzeno. In via Don Giovanni Verità a Faenza, vicino al Lamone, un argine è completamente sfondato dalla furia delle acque: “Anni fa qui l’argine non c’era, poi lo hanno alzato e hanno costruito altre case. Le prime furono costruite negli anni 50 poi via via le altre. I vecchi ci dicevano, state attenti, il fiume non perdona, prima o poi riprenderà la sua strada”.
Di urbanizzazioni quantomeno azzardate è ricco questo territorio, basti ricordare il quartiere di Faenza (detto “San Martino”) sorto nel 2008 lungo il Marzeno, formato da 33 villette a schiera finite sott’acqua per ben due volte in un mese. “Non so se torneremo a vivere qua” mi racconta un residente con le mani tremanti: “forse tra un anno, ma la paura è tanta. Non abbiamo neppure il primo piano dove scappare, queste case sono tutte a pianterreno e seminterrato”. Un quartiere che vinse anche un premio per architettura “sostenibile”.
La cooperativa che costruì questo quartiere fallì dopo poco e le opere di compensazione non furono mai fatte.




Come se nulla avesse insegnato l’alluvione, sta per partire l’urbanizzazione di una dozzina di villette a circa 200 metri dal Lamone, nell’orto della Ghilana, nei pressi di quella che doveva diventare una cassa di espansione.



Neppure a Ravenna la natura (e la storia) hanno buoni allievi. Lo scorso 6 giugno la Giunta comunale di Ravenna ha approvato il secondo stralcio del Pua (piano urbanistico attuativo) relativo ad una delle più ampie urbanizzazioni in programma che riguarda la zona nord della periferia di Ravenna, il quartiere san Giuseppe. Poco lontano c’è Fornace Zarattini, pesantemente cementificata in questi anni e sott’acqua varie volte, con l’alluvione del 1996, e con le due alluvioni nel maggio di quest’anno.
In tutta l’Emilia Romagna, come sottolinea Legambiente con un recente documento il consumo di suolo è drammatico: “a più di 5 anni di distanza dall’approvazione della legge che doveva arrestare il consumo di suolo in Emilia Romagna, questo non si è fermato: ne costituiscono una prova gli innumerevoli progetti presentati e avviati in questi anni”. L’Emilia Romagna ha avuto un incremento del consumo di suolo per ettari maggiore della media in Italia. Modena e Ravenna sono le province in testa: Modena con un incremento di 134,83 ettari e Ravenna 113,95 di ettari per il solo anno 2020-2021, anno tra l’altro di rallentamento causa Covid, un consumo che è aumentato negli anni successivi. (Elaborazioni di Legambiente su Report SNPA n. 32/2022) https://www.legambiente.emiliaromagna.it/wp-content/uploads/2023/06/Dossier_CONSUMO-di-SUOLO.pdf


Casse di espansione
In natura i fiumi hanno un vastissimo spazio, non hanno argini, ma letti di ciottoli che si riempiono durante le piene e si diramano in rigagnoli durante il periodo magro. Tutt’attorno, boschi. Tra i pochi fiumi rimasti “selvaggi” c’è il Tagliamento.




L’uomo ha rubato spazio ai fiumi, per darlo all’agricoltura, alle case, alle strade, ai supermercati e alle industrie, e quasi ovunque i fiumi sono stati costretti in camicie di forza, in letti stretti e profondi, argini alti. Pericolosissimi in caso di piena.
Se tornare ad un fiume selvaggio non è più possibile, ridargli spazio orizzontale è comunque necessario. Allargare le golene e la distanza tra gli argini, creare numerose casse di espansione, luoghi umidi, non antropizzati, dove il fiume può esondare e diminuire il “picco di piena”. E ovviamente non costruire e laddove possibile spostare le case vicino ai fiumi.
Ma queste “casse di espansione” cozzano contro tanti interessi.
Nel 2010 l’Autorità dei bacini romagnoli  aveva commissionato uno studio all’Università di Bologna proprio sul Lamone, uno dei fiumi che ha fatto più danni in questa ultima alluvione: “Valutazione delle possibilità di laminazione delle piene del fiume Lamone a monte del tratto arginato”, realizzato dall’ingegner Armando Brath.


Lo studio prevedeva una serie di bacini allagabili in caso di piena del fiume, con argini bassi, da realizzare lungo il Lamone e il suo affluente Marzeno, che si congiungono proprio nel territorio faentino. Vennero presi in considerazione i modelli di rischio che valutavano tempi di ritorno delle piene di 30 o 200 anni. L’intensificarsi della crisi climatica, rende questo studio quantomeno sottovalutato, eppure lungo il Lamone e il Marzeno, da allora, non è stata realizzata neppure una cassa di espansione.




La pericolosità del Lamone veniva ben evidenziata: “caratteristica è la ristrettezza dell’alveo che determina rischi di esondazione per sormonto delle sommità arginali nei periodi di maggiore portata”.
Lo studio concludeva “il miglioramento delle condizioni di sicurezza idraulica del territorio, apportato dagli interventi previsti, è quindi indubbio e di entità rilevante.”
L’autorità bacini romagnoli confluì nel 2017 nella più vasta Autorità Bacino Distrettuale Fiume Po, (perdendo il contatto con le problematiche locali) e lo studio restò nel cassetto. Dopo oltre 10 anni dallo studio, anziché realizzare queste casse di espansione, si decise di finanziare  con 16 milioni di euro (fondi ministeriali ma anche contributi degli agricoltori), la costruzione di tre invasi di accumulo per uso irriguo, lontani dal fiume, senza alcuna utilità in caso di piene, ma fortemente voluti dalle associazioni di agricoltori. L’acqua per il loro riempimento sarà presa dal Lamone e dal CER tramite 23 km di tubature. Questo progetto è stato fortemente voluto dalle lobby degli agricoltori, che qui coltivano i kiwi e varietà sempre meno adatte al clima che cambia. L’agricoltura intensiva è inoltre spesso asservita agli allevamenti, (si produce mangime) e oltre a finire le riserve idriche, rende la terra sempre più impoverita e incapace di assorbire bombe di acqua.
Anche nel vicino fiume Senio, che scorre parallelo al Lamone, poco più a nord, le casse di espansione languono da tempo. Progetti che risalgono agli anni Novanta, ma come sottolinea Domenico Sportelli, dell’associazione “Amici del Senio”, “a tutt’oggi solo una cassa è stata realizzata, ma non è mai stata collegata al fiume. Durante le alluvioni di maggio si è riempita di acqua piovana ma non di acqua di fiume, si nota chiaramente dal colore. Mentre la seconda cassa di espansione in progetto più a valle, sito di una ex cava di sabbia, i lavori sono fermi da anni. Il fiume ha fatto il suo lavoro, esondando, senza aspettare i lavori, ed ha riempita una parte della vecchia cava, circa 10 ettari. Quando i lavori saranno compiuti, la cassa di espansione dovrebbe essere grande 50 ettari, contenendo tantissima acqua. Forse Castel Bolognese non si sarebbe allagata, se questo bacino fosse stata pronto. Queste casse di espansione hanno anche un alto valore naturalistico, si tratta di ambienti naturali, umidi, ricchi di biodiversità, piante e uccelli migratori dal Delta del Po, zone protette dallo sfruttamento antropico e fruibili da un turismo attento e sostenibile”.
I ritardi, secondo la risposta data dall’assessore regionale Priolo, ad una interrogazione di Silvia Zamboni, consigliera di Europa Verde nell’ottobre 2021, sono imputabili soprattutto ai privati che gestivano la cava, che non hanno rispettato il “piano di sistemazione finale dell’area”, concordato con il Comune di Faenza.
“La CTF che aveva inizialmente in gestione la cava – continua Sportelli – fallì nel 2015, e subentrò un’altra ditta che però non procedette con i lavori, la regione cercò di di estromettere il privato, e ci furono diatribe”. Secondo il cronoprogramma della Regione, a ottobre 2021 nella risposta data si prevedevano ancora 15 mesi per il progetto esecutivo e altri 6 mesi per la gara. Ma i tempi sembrano prolungarsi ancora “deve ancora essere avviata la sistemazione geomorfologica dell’area, quella prevista al primo step” conclude Sportelli guardando preoccupato il fiume.
Cinque casse di espansione dovevano essere realizzate anche ai margini del fiume Savio previste dalla variante del 2017 del Piano delle attività estrattive (cave di sabbia e ghiaia), ma solo una è stata realizzata: nei restanti siti, l’attività estrattiva dei privati non è terminata e quindi le casse non sono state realizzate. E così l’estrattivismo in questa regione fa scempi e profitti, ma difficilmente poi contribuisce al bene comune. Una storia infinita, fatta di interessi privati che travalicano quelli pubblici, mettendoli sempre in secondo piano.


Per quanto riguarda le frane, recentemente il Direttore di Coldiretti Ravenna, Assuero Zampini, ha affermato “la maggioranza delle frane di collina sono avvenute infatti in boschi non coltivati e quindi non soggetti a periodica ceduazione”.
L'Ente di Gestione per i Parchi e la Biodiversità – Romagna ha subito risposto: "in realtà gli studi hanno dimostrato esattamente il contrario. Anche senza scomodare la ricerca scientifica è sufficiente guardare la realtà, nella cartografia prodotta dalla regione e visibile nel “Geoportale regionale” (allegata) si vede con molta chiarezza che i luoghi meno colpiti da eventi franosi sono proprio quelli che hanno norme di tutela importanti: il Parco regionale della Vena del Gesso Romagnola e i siti di importanza comunitaria della Rete Natura 2000 all’interno dei quali insistono anche terreni demaniali e in cui è stata avviata una gestione boschiva caratterizzata dall’alto fusto. È quindi curioso leggere oggi che la colpa delle frane sia del Parco".

Fogne malfunzionanti
Come sottolinea anche Legambiente, Hera dovrebbe rispondere delle fognature sottodimensionate e del loro malfunzionamento, visto che spesso le strade si sono allagate per il malfunzionamento della paratoie. Teniamo conto che risale al vecchio DLgs 152/1999 l'obbligo per HERA di predisporre le doppie reti (una per acque di scarico reflui, una per le acque meteoriche).
Lo scopo è evitare che a ogni pioggia la "merda" finisca, tramite gli scolmatori, direttamente nei fiumi, o che acqua di pioggia in eccesso finisca ai depuratori, mandandoli in crisi per alcuni giorni per "liquami troppo diluiti". A che anno siamo arrivati? I soldi dovrebbero essere recuperati in tariffa sulla famosa "quota di depurazione" che paghiamo sull'acqua potabile erogata dall'acquedotto.
Non per nulla si parla di SII = Servizio Idrico Integrato, potabilizzazione-trasporto-erogazione-raccolta-depurazione, tutto assieme.

Insomma l'alluvione dovrebbe farci riflettere sulla strada che vogliamo percorrere, perché la Motor/Energy/Food Valley sta diventando soltanto una desolata valle della morte.


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